CIAK SI GIRA. Andiamo al Cinema di Maria Letizia Cilea. La Scuola Cattolica, occasione persa I grandi nomi (Valeria Golino, Scamarcio...) non bastano a salvare un fil da “bocciare”

Quando nel 2016 Edoardo Albinati pubblicava il suo La Scuola Cattolica non poteva immaginare che le sue 1.294 pagine di romanzo-memoir sul delitto del Circeo sarebbero diventate un film di 120 minuti. Ciclopico innanzitutto per la sua mole, il libro si dotava di un taglio da indagine socio-antropologica sull’educazione e sul contesto culturale dell’Italia alto borghese degli anni ’70, quella di una classe che s’innalza per la sua colta agiatezza mentre coi suoi stessi piedi sguazza in un humus ideologico fatto di prevaricazione e violenze vagamente fasciste.
Da questo ambiente malsano sbucano fuori, dopo ben 473 pagine, i bruti criminali del massacro del Circeo, perfetti figli di un paese che, di lì a poco, sarebbe rimasto vittima della sua stessa barbarie: il 30 settembre 1975 Andrea Ghira, Angelo Izzo e Gianni Guido parcheggiano una 127 in Via Pola 5. Nel bagagliaio ci sono Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, due giovani che il giorno prima erano state rapite e stuprate dai tre ragazzi in una villa sul promontorio del Circeo.
Il delitto ebbe un’eco gigantesca, con effetti che si protrassero per anni, movimentando opinione pubblica e non solo.
Data per assodata la sua gravità, nell’economia del libro di Albinati il delitto rappresenta soltanto una parte del racconto, le cui pagine si dilungano in una sorta di scomposizione della vicenda, trascendendola e immergendosi in un’analisi anche politica della condizione storica che ha reso possibile il drammatico evento.
Se l’intento del libro di Albinati è talmente chiaro da aver vinto un Premio Strega, diverso è l’esito della trasposizione del regista Stefano Mordini. Cinema e letteratura non sono certo sovrapponibili, ma vista l’impresa in cui la produzione del film si è imbarcata, è lecito domandarsi quali siano gli scopi di un’opera che non reca traccia dell’opera letteraria originale.
La tanto interessante problematizzazione del contesto culturale lascia infatti il posto a un appiattimento generale, tanto del materiale umano quanto di un racconto che tanto, invece, aveva da dare allo schermo: personaggi-macchietta, dialoghi didascalici ed eventi incoerenti si susseguono dunque con il solo obbiettivo di condurre lo spettatore al climax del delitto.
Lo shock e la violenza – peraltro eccessivi – si calano dall’alto senza alcuna traccia di una qualche volontà di approfondimento critico, di analisi o di condanna morale; alla più deprecabile semplificazione si aggiunge poi l’inaccuratezza storica, con un racconto che glissa su dettagli – i precedenti penali dei colpevoli, ad esempio – cruciali per la delineazione di un quadro più chiaro della vicenda.
Resta forse una buona direzione degli attori, che tra grandi nomi (Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli) e nuove promesse (Luca Vergoni, Giulio Pranno, Francesco Cavallo) mantiene elevato almeno il piano interpretativo.
Terminata la visione, tuttavia, persiste una domanda: perché un tale spreco di energie e talenti quando tanto il libro quanto – e soprattutto – la vicenda si sarebbero meritati prestazioni di ben altro livello?

VOTO: 4